Sono un consulente aziendale, un coach e un consulente filosofico. Mi occupo di persone e organizzazioni. Qui scrivo di come cambiare le une e le altre. In particolare, ma non solo, con le pratiche filosofiche. Perchè, come dice Wittgenstein, "compito della filosofia è mostrare alla mosca come uscire dalla bottiglia". E... giusto per essere chiari: qui le mosche siamo noi. Per chi desidera scrivermi c'è l'e-mail paolo.cervari@gmail.com, mentre per saperne di più su ciò che faccio c'è www.cervari-consulting.com.

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giovedì 25 agosto 2011

Siamo tutti soggetti postraumatici

Il concetto di soggetto postraumatico e di matrice psicoanalitica ed è stato discusso e sviscerato da Zizek nel suo libro Vivere alla fine dei tempi (Ponte alle Grazie). Si tratta di un soggetto che in un certo qual senso non è più tale, ovvero è l’ombra, lo spettro, di se stesso. “In altre parole, quando abbiamo a che fare, diciamo, con un malato di Alzheimer, il punto non è solo che la sua consapevolezza è pesantemente limitata, che l’ambito dell’Io è ridotto, ma piuttosto che non abbiamo letteralmente più a che fare con lo stesso Io. Dopo il trauma emerge un altro soggetto, stiamo parlando a uno sconosciuto” (pag. 424). Ma chi è costui? Che gli è successo? Sappiamo di certo, come si dice, che “non è più lui”. Ma, secondo Zizek, in un modo molto particolare. Praticamente, semplificando, il trauma che rende così piatto e spettrale il soggetto postraumatico è una sorta di ripetizione della soggettivazione vera e propria, che avviene, secondo Lacan, precisamente attraverso la perdita di un’illusione, narcisistica, di essere uno con la Cosa (la Madre). Ma se quella prima tragica esperienza traumatica conduceva a una vita di lavoro e desiderio, perché attraverso la funzione paterna, ovvero la castrazione, il soggetto, per l’appunto veniva ad essere come ciò che restava ancora possibile dopo quella perdita, e solo così era lui, ovvero soggetto, con il trauma che produce il soggetto postraumatico, invece, avviene precisamente la perdita di quella condizione soggettiva così dolorosamente conquistata. Insomma si ripete la perdita, ma stavolta, si perde tutto. Un po’ come in certi racconti kafkiani, sto pensando a Davanti alla legge, in cui si patisce di una condizione dura e dolorosa, per scoprire poi alla fine che ci viene tolta anche quella. E in modo inappellabile. Esattamente come accade ai migranti quando vengono imprigionati o costretti in condizioni subumane. Insomma questa seconda perdita è ben più dura e definitiva, perché ci toglie la possibilità di lavorare, di darci da fare, di cercare una soluzione. Game over. Niente da fare. La porta si chiude. Fine della speranza.

Disperazione: questa è la condizione del soggetto postraumatico. I suoi archetipi, non a caso, sono il “muselmann” completamente inebetito del lager, il malato di Alzheimer, chi è stato colpito da una catastrofe insuperabile, sia essa fisica, mentale o simbolica e culturale, e si ritira nel nulla dello stordimento e dell’anestesia (penso per esempio all’alcolismo presso gli amerindi o gli aborigeni australiani).

Ma questo inebetimento, questa insensibilità, questa anestesia, non sono il nostro bagno di cultura quotidiana? Non siamo stati tutti rapinati e scippati di qualcosa di “nostro”, del senso della vita, del nostro vero io, di una speranza, di un afflato di autenticità che a malapena ricordiamo? E non ci rifugiamo noi tutti in pratiche ripetitive e istupidenti come guardare la televisione, fare cose trite e senza valore, ripetere come automi l’identico senza avere più nessuna voglia e nessuna speranza, se non quella vogliuzza per l’oggi e quella per il domani, una birra e un scopatina, l’ultimo film di pinco pallino (se vuoi far l’intellettuale), una corsetta in palestra o un flirt, quelle vogliuzze dicevo, che Nietzsche ha descritto come il placido e inconsapevole inferno dell’ultimo uomo?

E siccome l’ultimo uomo è l’ultimo baluardo contro l’avvento del superuomo… non varrebbe la pena di gettare il cuore oltre l’ostacolo? Come diceva Marx, parlando alla fin fine della stessa cosa (lui la chiamava comunismo), c’è un momento in cui non ce n’è più per nessuno e le chiacchiere non bastano più: hic Rhodus, hic salta!

E si può fare, perché in fondo non è vero che siamo soggetti postraumatici: ci turbano tanto, loro, i soggetti postraumatici, perché in realtà li mimiamo (o forse loro imitano noi…) e ci ricordano che a forza di recitare questa farsa… potremmo davvero diventare così!

mercoledì 24 agosto 2011

Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 8

Con rimando ai precedenti post che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 8 è:

Espandere e sfruttare la diversità. Dobbiamo creare un sistema manageriale che dia valore alla diversità, al disaccordo e alle divergenze tanto quanto alla conformità, al consenso e alla coesione.

In altri termini: democrazia. Non solo e non esclusivamente, certo. Diciamo allora… idiofilia? Amore e attenzione per ciò che è unico, strano, diverso? Questo è il compito. Perché la diversità è ricchezza, ulteriore possibilità, spazio di gioco e di manovra, brodo di coltura di nuove idee, soluzioni, procedure. Parlando da filosofo (che si è formato su Derrida, il cui testo forse più importante si intitola La differance, per cui figuratevi quanto sono d’accordo) la differenza è la vita, è l’origine di ogni cosa (lo direbbe anche Hegel). Ma scendiamo dai cieli dei filosofi. Che significa in pratica? E come si fa? Per quanto riguarda la prima domanda non mi viene in mente niente di meglio che rimandare al celebre discorso di Steve Jobs all’università di Stanford, che si conclude tra l’altro con l’esortazione a essere folli (sic!). Per quanto riguarda la seconda, posto che siamo d’accordo con quanto detto sopra, il problema è trovare il modo di ridurre i costi di transazione, negoziazione e traduzione. Si, perché, se è vero che diversità, stranezze ed idiosincrasie sono una risorsa, la questione sta nel come accedervi in modo efficace ed efficiente a costi bassi, evitando nel contempo che la loro stessa esistenza e vitalità non comporti costi o problemi (in parole povere che la differenziazione non combini casini). Ora, come dice Gary Hamel nel suo già più volte citato Il futuro del management, noi esseri umani abbiamo già da tempo inventato sistemi per valorizzare le differenze senza fare troppa confusione. Sono sistemi complessi, capaci di grandi fluttuazioni interne e, insieme, efficaci autoregolazioni. Sono le grandi città, i movimenti religiosi, i mercati, le società democratiche. C’è poi la vita, ovvero gli organismi biologici e le popolazioni (di merluzzi, di gnu, per esempio), che è un’altra e forse ben più importante maestra di come fare un sacco di cose tollerando una complessità e una differenziazione interna stupefacente. Si, certo, si dirà, ma a parte il fatto che non sempre queste cose hanno successo, come fare per organizzare un’azienda in quel modo? Con quali vincoli, regole ecc.? Ora, se è vero che città, mercati e così via non sempre hanno successo… bè, non fatemi dir delle aziende – vi ricordate i fratelli Lehman? Quanto alla questione vera e propria, quella relativa all’organizzazione di un’organizzazione così “disorganizzata”, lo strumento c’è. E non è soltanto un mero strumento, ma un modello, un paradigma: si chiama web 2.0. Le organizzazioni sono dei sistemi sociali? Che si attrezzino da social network!

Per maggiori informazioni vedi http://managementlab.com e "Le grandi sfide per il management del XXI secolo", in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.

domenica 21 agosto 2011

La fidanzata automatica

Uno dei numi tutelari del pragmatismo, William James, ci narrò un bel giorno l'apologo della fidanzata automatica, che più o meno liberamente interpretato suona così: un uomo (tu) ha una fidanzata perfetta, di cui è innamoratissimo e che si comporta esattamente come per lui è il meglio possibile, compresa una piccola quota di dissenso e divergenza (insomma, rompe un po', come è giusto che sia). L'uomo é felice, solo che un bel giorno gli rivelano, inoppugnabilmente, ovvero svitandole un pezzo di cranio, che è un automa, perfettamente programmato per stare con lui. Ora, posto che un tale oggetto (se è un oggetto) non esiste, la domanda che vorrei fare è: qualora esistesse, l'uomo (tu... ovviamente la storiella si può simmetrizzare per le signore), continuerebbe a essere innamorato di lei o no? La risposta, io credo, è no. Ma quello che è interessante è il perchè. Andiamo per le spicce, senza tante elucubrazioni: quello che è cambiato è solo che adesso lui lo sa, ovvero sa che lei è un automa. Prima a lui la fidanzata (segretamente automatica) andava benissimo, anzi, era la donna della sua vita. Dunque cosa è cambiato? Che lui ora sa che lei non era come lui pensava che fosse, ma bensì lei è com'è, ora che sa com'è. Ma qual'è la differenza? Che è programmata. Ovvero non è libera. Ma che differenza fa? Perchè nella pratica non c'è nessuna differenza, l'unica vera differenza è che lui lo sa. E dunque? Cosa manca alla fidanzata automatica? Nulla, eppur qualcosa, un "non so che". Anzi precisamente un "non so che" inteso nel senso di un margine di alea e di rischio, vale a dire per l'appunto l'idea, anzi il fatto, che non sia tutto prefissato. Tralascio di inoltrarmi nella discussione su cosa sia la libertà, perché credo che sia più interessante restare su questo reperimento indiscutibile: se lui non lo avesse saputo... ma ora che lo sa... E ricordare che quel "non so che" che fa la differenza è un tema discusso sia in estetica (direi nel '700 soprattutto se non ricordo male) sia da Lacan, che lo collega all'oggetto /a/ ovvero a quel sovrappiù fatto di niente in cui si cela il segreto del nostro desiderio e, infine, da Jankelevic che ha scritto il bellissimo ll non so che e il quasi niente (appunto). Ora, cosa accomuna tutte queste visoni? Che hanno in comune queste diverse riflessioni sul "non so che" che, ricordo, rende una fidanzata vera migliore di una fidanzata automatica? Con l'idea di singolarità, di contingenza, di irripetibilità. E infatti, a ben pensarci, non vorrei la fidanzata automatica perchè se ne potrebbe fare... un'altra uguale.

Oppure, ipotesi estrema, forse potrei volere una fidanzata automatica, a condizione di non avere più nulla da aspettarmi da quelle vere. Che è in fondo la condizione di quello che chiamo il soggetto postraumatico (vedi i tag omonimi): la disperazione, il futuro azzerato, l'assenza di desiderio... se non mi aspetto più nulla, allora una fidanzata automatica è perfetta. Mi allevia il dolore. Come lo Xanax. Ma ecco che, forse, lei potrebbe rivelare, in modo sottile, un volto nascosto, perchè in fondo chi può essere certo che non possa esprimere una soggettività? A volte è nel più profondo degli abissi della disperazione che può nascere la speranza e là dove c'è il pericolo cresce ciò che salva (Holderlin citato spesso da Heidegger). Già, perchè forse ancora bene non sappiamo cosa sia un soggetto (James non poteva conoscerlo, ma se avesse letto tutto quello che ci ha detto Asimov sui robot... per non parlare di Philip Dick, o dell'Odradek di Kafka).

Tu sarai fuori di te

"Vattene dal tuo paese, dalla tua patria
e dalla casa di tuo padre,
verso il paese che ti indicherò."

Sono parole di Dio. Ad Abramo. Che ovviamente le riceve in ebraico antico, dove "vattene" si scrive Lech lechà, che suddiviso così, Lech le-chà, può significare anche "vai verso te stesso". Come dire che per trovare te stesso devi andartene da te stesso. Uscire, andare fuori. Fuori da ciò che sei. Per questo follia e saggezza si toccano (extrema tanguntur).

Qui sta l'essenza della riflessività, che non è la ripetizione dell'identico, ma qualcosa in più, perché c'è la ripetizione.

sabato 20 agosto 2011

C'è un prezzo per tutto

"Costoro non conservano nella loro memoria il ricordo del passato, né se lo rammentano, ma lasciano che questo svanisca a poco a poco, in realtà rendendosi così, giorno dopo giorno, sempre più sguarniti e vuoti, quasi sospesi al giorno che deve ancora venire, come se gli eventi accaduti l'anno già passato, l'altro ieri o ieri non li riguardassero, e non fossero neppure a loro appartenuti". Sono parole di Plutarco (Peri euthumias), riportate da Foucault in L'ermeneutica del soggetto (lezione del 24 Marzo 1982), che così le chiosa: "Il che equivale a dire che costoro sono votati non solo alla discontinuità e al trascorrere, ma anche alla perdita di sè e al vuoto. Essi non sono realmente più nulla. Si trovano nel vuoto".
Ora, posto che si stanno decrivendo gli stulti, ovvero coloro che "si trovano esattamente nella posizione opposta a quella filosofica", e che tale descrizione va riferita al periodo ellenistico, ciò che mi ha colpito è che questa descrizione va benissimo per noi. Non facciamo esattamente così? Non è questo uno dei sintomi del (o il) male del nostro tempo? E trovo molto interessante che l'essenza della stultitia risieda nell'oblio... Ed è per questo che il soggetto che ha l'alzheimer, ovvero quello che io chiamo sulla scorta di Zizek il soggetto postraumatico, è oggi così importante per noi: è il nostro specchio, in fondo, quello che noi siamo. Senza storia, senza (vero) futuro. Insomma, rincoglioniti. Ma la domanda importante a questo punto è: cosa ci ha condotto qui? Qual'è il punto chiave? In un modo un po' fortuito e un po' pop, se vogliamo, ho trovato una risposta in un libro di un autore che ho già citato, Qiu Xialong, che s'intola Ratti Rossi. Siamo in Cina negli anni della transizione e si sta parlando del fatto che si pagano le celebrità per farsi fotografare con loro. Il protagonista conclude sconsolato: "C'è un prezzo per tutto". E il narratore commenta: "Ed era quello il problema. Si rendeva omaggio all'ideologia comunista solo a parole. Nonostante il Quotidiano del popolo e i documenti di Partito, la realtà sociale era che tutti, dal primo all'ultimo, pensavano a se stessi." Ci sarebbe ancora molto da dire, ma voglio tagliare corto con una domanda: dove si è e come si è quando la vita stessa di una persona (di tutte le persone, forse...) è diventata una merce?

domenica 14 agosto 2011

Filosofia come politica

"La questione della filosofia è la questione del presente che noi stessi siamo. E' per questo che oggi la filosofia è interamente politica e interamente storica. E' la politica immanente alla storia, è la storia indispensabile alla politica."

Michel Foucault, Dits et écrits, Gallimard, III, p. 266

sabato 13 agosto 2011

Cornici

"Un professore di filosofia sale in cattedra e, prima di iniziare la lezione, toglie dalla cartella un grande foglio bianco con una piccola macchia d'inchiostro nel mezzo. 'Che cosa vedete qui?'. 'Una macchia d'inchiostro', rispose qualcuno. 'Bene', continua il professore, 'così sono gli uomini: vedono soltanto le macchie, anche le più piccole, e non il grande e stupendo foglio bianco che é la vita'."

Vittorio Buttafava

Santi e animali

"Santi e animali non sono mai frustrati: vanno sempre avanti."

Anthony De Mello, Il messaggio

Lode alla noia

"Solo la noia permette di godere del presente, ma tutti hanno l'obiettivo opposto: per divertirsi gli occidentali evadono attraverso la televisione, il cinema, internet, il telefono, i videogiochi, o una semplice rivista. Fanno le cose ma non ci sono mai con la testa, vivono per procura, come fosse un disonore accontentarsi di respirare qui e ora."

Frédéric Beigbeder, 999 Francs

Che fa il paio con:

"Tutta l'infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restarsene tranquilli in una stanza."

Blaise Pascal, Pensieri

Io sono molto d'accordo: i momenti migliori sono quelli in cui si sospende la necessità ossessiva di produrre, e ci si consegna all'inutilità. Che scandalizza: provate a rispondere "niente, mi lascio vivere" a chi vi domanda "cosa fai di bello nella vita"? E questo mi fa venire in mente un altra cosa: l'ailanto di Chuang Tzu (meno noto del cuoco), di cui il noto saggio taoista tesse le lodi dicendo che poiché non dà frutti e il suo legno non arde bene, siccome è dunque del tutto inutile, cresce prospero e ci può dare di che riposare sotto la sua fresca ombra.
Ho sempre desiderato essere un ailanto.

Ma allora che fare? Per proseguire con le parole di Beigbeder (sempre tratte da 99 Francs, un romanzo che consiglio di leggere), dato che "l'uomo continua a fuggire la propria angoscia con il divertimento (...) come fuggire il divertimento? Affrontando l'angoscia."
Niente di nuovo, per carità, lo diceva anche Heidegger. Ma proviamo a farlo: non è come dirlo.

Capitalismo

"Il capitalismo trasforma gli esseri umani in yogurt deperibili, drogati di spettacolo, cioè addestrati ad annientare il prossimo"

Frédéric Beigbeder, 99 Francs

venerdì 12 agosto 2011

Tra scienza ed esperienza (di sé)

Nello splendido corso del 1981-1982 intitolato L’ermeneutica del soggetto, Michel Foucault, verso la fine, nella lezione del 24 Marzo, si lancia in un grande affresco storico dicendo che “in Occidente, in fondo, sono state conosciute e messe in atto tre grandi forme di esercizio del pensiero, di riflessione del pensiero su se stesso, vale a dire tre grandi forme di riflessività”. Esse sono, continua Foucault, la memoria; esercitata dagli antichi greci come strumento per ritrovare le eterne verità dimenticate dall’anima; la meditazione, esercitata nel periodo ellenistico romano e quindi, in modo un po’ diverso, nel cristianesimo, per avere cura di sé e formare il soggetto come soggetto di verità, ovvero dai pensieri e dalle parole coerenti con gli atti e le opere; e il metodo, ovvero il dispositivo di nascita cartesiana e poi al cuore della scientificità moderna, secondo il quale si reperisce a forza di dubbi radicali la certezza sulla quale edificare la conoscenza. E fin qui tutto bene, anche se chiaramente molto semplificato. Ma vi sono delle belle complicazioni. Soprattutto quella per cui se per l’appunto col cartesianesimo “il legame tra l’accesso alla verità, divenuto sviluppo autonomo della conoscenza, e l’esigenza di una trasformazione del soggetto, e del suo essere, da parte del soggetto stesso, è stato credo, definitivamente spezzato” (lezione del 6 Gennaio), ecco che subito dopo Foucault aggiunge che “è inutile che vi dica che, quando affermo che mi sembra che tale legame sia stato definitivamente interrotto, non ci credo neanche un po’”, per proseguire poi con un inquadramento di fenomeni quali il marxismo e la psicoanalisi nel più ampio alveo di una sorta di sopravvivenza di quella trasformazione del soggetto ad opera del soggetto stesso che l’autore non esita, proprio in queste pagine, a chiamare “spiritualità”. E per di più, in tutta questa storia, Foucault non trascura mai di fare riferimento, senza mai approfondire a causa dei limiti storici dell'argomento del corso, al cristianesimo che, in sintesi, fa evolvere la meditazione verso un dire la verità su di sé – dove possiamo indovinare, finalmente con chiarezza, le radici cristiane della psicoanalisi.

Scusate per il lungo riassunto, ma tutto questo mi serve per porre una questione: dove siamo oggi? Qual è la forma di soggettività, la forma di “riflessività” (parola che sposo in toto) che ci contraddistingue oggi? Perché una cosa è certa: l’idea che sia possibile accedere alla verità su di sé mediante la scienza (il metodo), se mai ha avuto corso legale, oggi è più che mai messa in questione dal fatto che da almeno mezzo secolo è chiaro a tutti come il soggetto sia implicato in ogni proferimento (anche in quelli scientifici). Non si tratta soltanto dell’errore di Cartesio, come direbbe Damasio, ovvero dell’esclusione delle emozioni e della situazionalità, ma del fatto che ogni frase “è detta da un osservatore”, come direbbero Maturana e Varela, per non parlare di tante altre questioni note, che vanno dal teorema di Goedel, al principio di indeterminazione di Heisenberg, dalla sovradeterminazione del senso di matrice freudiana al paradossale rapporto che lega il soggetto dell’enunciato con quello dell’enunciazione in Benveniste (mi si scusi l’esibizione di erudizione, peraltro media e modesta, ma qualche riferimento va pure dato).Insomma non siamo mai fuori gioco, non c’è un terreno di gioco esterno a noi e il soggetto qualunque cosa faccia o dica, nel contempo si divide e trasforma sia se stesso che il mondo. Fine del sogno hilbertiano di calcolare tutto. Anche perché, come mostrò magistralmente per illustrare il concetto di complessità uno scrittore a me caro, Samuel Delany, in uno dei suoi romanzi (credo si tratti di Stella imperiale), se fai il dizionario del mondo, quando hai finito sono sorte già molte parole nuove e devi pure dare un nome al dizionario, aggiungendo ad esso una parola che, aggiungendosi alle altre, lo cambia…

E dunque? Siamo al ritorno della spiritualità? Certo i segni dei tempi depongono a favore: e cosa mai cercherebbero, infatti, se non proprio una via di trasformazione di sé, tutti coloro che si rivolgono a sette e buddismi, analisi transazionali e psicologie positive, coaching e psicoterapie varie, per non parlare di chi (avis rara) sperimenta la consulenza filosofica? D’accordo… ma che caratteristiche ha questa nuova (nuova?) forma di riflessività, ovvero di soggettivazione che pare (forse) affacciarsi tra noi a partire (direi) dalla postmodernità? Foucault ci ha dato qualche indicazione, sparsa qua e là nei suoi testi, e voglio evocarne una, che ci regala proprio alla fine del corso in questione (sempre la lezione del 24 Marzo), dicendo che “la sfida lanciata dal pensiero occidentale alla filosofia (…) consiste nel chiedere in che modo ciò che si dà come oggetto di sapere articolato sul dominio della tekhne [qui Foucault sta alludendo al mondo], possa essere al contempo il luogo in cui si manifesta, si mette alla prova, e con difficoltà giunge a compimento, la verità di quel soggetto che noi stessi siamo. E in che modo il mondo, che si dà come oggetto di conoscenza a partire dal dominio della tekhne, possa essere al contempo il luogo in cui si manifesta e in cui si mette alla prova il “se stessi” come soggetto etico di verità”, specificando poi che si tratta di capire come sia possibile che il mondo sia ad un tempo oggetto di conoscenza e luogo dell’esperienza (trasformativa) del soggetto. Detta così sembra che si ripercorra la vecchia distinzione tra scienze della natura e dell’uomo, o per dir meglio, nomotetiche e idiografiche (secondo la terminologia di Windelband), ma v’è un passo di Le parole e le cose in cui Foucault (decenni prima) ci evoca la struttura della soggettività moderna ai suoi albori riferendosi a una sua icona celeberrima: Don Chisciotte, che ha scienza (ha letto molti libri, fino a perdere il senno) e non esperienza, e Sancho Panza, che ha esperienza (parla per proverbi e ha senso pratico) e non scienza. Mi ricordano il cieco e lo storpio, devono stare insieme per procedere, ma a differenza loro, senza integrarsi gran ché, tant’è che il loro è un dialogo tra sordi, e per questo comico. In questo stare insieme, come dice Foucault, ad un tempo, e in questo difficile dialogo tra scienza ed esperienza, e nel vuoto attorno a cui esso si articola, credo si celi la chiave interpretativa per decifrare l’enigma della nostra, contemporanea, forma di soggettività.


mercoledì 10 agosto 2011

La vita e la verità

"La nostra vita è lo strumento mediante il quale compiamo esperimenti con la verità".

Thich Nhat Hanh

Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 7

Con rimando ai precedenti post che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 7 è:

Ridefinire il lavoro di leadership. La nozione de “il” leader come eroico decisore è indifendibile. I leader devono essere rimodellati come architetti di sistemi sociali che favoriscono l’innovazione e la collaborazione.

Ed eccoci finalmente! Il sacro totem della leadership è stato tirato in ballo! Del resto il nostro Gary Hamel (ricordiamo che è dal suo libro Il futuro del management che abbiamo tratto la sostanza delle 25 sfide per il management di domani) non poteva certo farne a meno. Ma vediamo di approfondire un po'. In primo luogo vorrei ricordare che quanto sopra presuppone uno spostamento lungo quello che è chiamato lo spectrum della leadership dal polo gestione-controllo verso il polo coaching-guida. E come potrebbe essere altrimenti? Se infatti bisogna generare innovazione, e per farlo è necessario un clima di collaborazione, ecco che il nostro leader da intrepido condottiero di truppe più o meno insipienti, inconsapevoli e illetterate si deve trasformare in leader politico di un popolo che sia in grado di essere soggetto (soggetto... bell'ambiguità di senso vero?). Anzi, a ben pensarci non deve essere un leader politico, ma un politico vero e proprio (se mai esiste, in questa accezione... diciamo di sì, se pensiamo a Gandhi, o magari a qualche grande statista del secolo scorso), ovvero un architetto di società, o meglio, come dice Gary Hamel, di sistemi sociali. Che significa? E soprattutto: come farlo? Posso dare solo qualche traccia di risposta. In primo luogo mi viene a dire che se si vuole far sì che tutti diano il meglio e tutti insieme si vada da qualche parte che abbia un senso, la prima cosa da fare è per l'appunto garantire che le persone sappiano cosa fanno e perché, qual'è l'obiettivo comune e addirittura la ragion d'essere del loro stare insieme a fare le cose che fanno e faranno. Il che mi fa venire in mente che forse servono degli ideali, dei valori comuni, dell'entusiasmo, della passione, della capacità di sacrificio. E in primo luogo da parte del leader stesso (mi viene in mente Gesù, del resto Hamel stesso dice che le religioni sono un buon modello di organizzazione, basata sulla passione). Inoltre, per fare tutto questo credo che il nostro leader debba essere credibile e autorevole. Forse anche amato e ammirato, perché no, ma solo in modo.... razionale, ovvero perché credibile e autorevole, il che in parole povere significa che... "mi posso fidare di lui". E per dirla ancora in un altro modo, a un tempo più semplice e più filosofico (il riferimento è agli stoici), significa che il nostro leader fa quello che dice e dice quello che fa. Insomma è (come diceva Foucault nel suo splendido corso su L'ermeneutica del soggetto) un uomo di verità. E immagino che a questo punto ci sia chi, leggendo, sobbalza sulla sedia: verità? In azienda? Ma dai... Ebbene, si, è quello che sostengo. La proposta ha a che vedere con un tipo di leader e manager "in pubblico" (ricordate il riferimento alla politica poco sopra?), che non è solo una mia invenzione e di cui potete trovare esplicazione e riferimenti nel mio (e di Neri Pollastri) libro Il filosofo in azienda (che potete trovare qui, con una presentazione invece qui), dove tra l'altro sulla leadership ci sono diverse pagine. E per concludere, come sempre vi accenno la litania, o se volete la critica: ma perché di queste indicazioni spesso e volentieri non si prende atto? Sto scrivendo mentre i mercati crollano... speriamo non sia necessario toccare il fondo. Ma qual è il fondo?

Per maggiori informazioni vedi http://managementlab.com e "Le grandi sfide per il management del XXI secolo", in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.