Sono un consulente aziendale, un coach e un consulente filosofico. Mi occupo di persone e organizzazioni. Qui scrivo di come cambiare le une e le altre. In particolare, ma non solo, con le pratiche filosofiche. Perchè, come dice Wittgenstein, "compito della filosofia è mostrare alla mosca come uscire dalla bottiglia". E... giusto per essere chiari: qui le mosche siamo noi. Per chi desidera scrivermi c'è l'e-mail paolo.cervari@gmail.com, mentre per saperne di più su ciò che faccio c'è www.cervari-consulting.com.

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mercoledì 30 marzo 2011

Vita e morte

"Se un uomo non ha scoperto nulla per cui vorrebbe morire, non è adatto a vivere".

Lo diceva M.L. King, e io aggiungo: se vuoi sapere per cosa vale la pena di vivere, chiediti per cosa potresti, e vorresti, morire. E' un modo pratico e semplice per risolvere il solito grande problema del senso della vita. Provare per credere: scrivilo... e vedrai.

martedì 29 marzo 2011

La trappola

"Io mi sento preso in questa trappola della morte, che mi ha staccato dal flusso della vita in cui scorrevo senza forma. e mi ha fissato nel tempo, in questo tempo!"

Luigi Pirandello, La trappola

lunedì 28 marzo 2011

Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 6

Con rimando ai precedenti post che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 6 è:

Reinventare gli strumenti di controllo. Per superare il trade-off tra disciplina e libertà, i sistemi di controllo devono incoraggiare il controllo dall'interno anzichè i vincoli imposti dall'esterno.

Bello eh? Ma abbiamo chiaro cosa significa? Qui il nostro autore (ricordiamo che si tratta di Gary Hamel) a mio avviso scivola, o meglio confonde (a meno che non sia colpa del traduttore, ma ne dubito) un po': quando parla di esterno, intende, in realtà, dire "esterno a me", e quando parla di interno, intende qualcosa di simile a "comunità", ovvero qualcosa in cui mi riconosco. Mi spiego con un esempio: in una certa azienda di cui non ricordo più il nome, il problema relativo a una buona gestione delle spese di trasferta è stato risolto pubblicando nell'intranet aziendale le spese di ciascun manager, in ogni dettaglio.... Questa "pubblicità", termine da considerare in senso stretto, vale a dire come "essere in pubblico", tende a scoraggiare con facilità comportamenti pirateschi e appropriativi quali scolarsi a cena una bottiglia di Chateau Margot del '67 alla modica cifra di 300 euro. O meglio, rende tali comportamenti soggetti alla critica, alla valutazione, all'attenzione da parte della comunità (comunque la si limiti o filtri) - chissà, forse a volte è giusto ordinare a spese della comunità una bottiglia del genere, magari quando si ha per ospite una persona di riguardo che potrebbe generare per la comunità vantaggi ben maggiori della spesa. Insomma, è un po' come quando sai che ti osservano e di conseguenza di viene meno facile buttare la carta per terra. Ora, il punto interessante, secondo me, è che questo modo di procedere comporta una forte coerenza con i valori e la mission e "costringe" le persone a "comportarsi bene" non perchè verrebbero sanzionate o giudicate male, ma perchè gli altri li considererebbero poco "ok", in quanto "traditori" del bene comune. Già... il bene comune. Grande concetto, poco praticato. E se pure tralascio, ora, di esplorare difficoltà e paradossi relativi alla definizione del limite di questo "comune" (ovvero il problema di decidere fin dove si estende... perchè sotto certi aspetti siamo tutti e sempre stakeholders) mi chiedo e vi chiedo: non è forse questo il vero e unico motivo a partire dal quale si possono allineare - come già secoli fa auspicava Blanchard - obiettivi personali e organizzativi? E per converso, chiedo ancora: dove si va a finire se ci si dimentica del bene comune in un'organizzazione in cui le persone, in ultima analisi, sono libere di decidere se lavorare bene o no? E visto che che credo di sapere quale risposta avete dato alle domande di prima, chiedo infine: come mai di queste elementari verità se ne infischiano quasi tutti?

Per maggiori informazioni vedi http://managementlab.com e "Le grandi sfide per il management del XXI secolo", in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.

venerdì 11 marzo 2011

Vita, morte e identità

"Per vivere devi far morire te stesso. Ecco perchè tante persone si arrendono."

Paul Auster, Nel paese delle ultime cose

L'aforisma di cui sopra si trova alla pagina 20 dell'edizione tascabile Einaudi, ma tutto il passo - e il libro - è straordinario per percorrere in modo illuminante la dialettica tra identità e cambiamento così come ci si propone oggi. A dimostrazione aggiungo un aforisma tratto da poche righe prima: "La vita come la conosciamo è finita, e tuttavia nessuno è capace di capire da cosa sia stata rimpiazzata".... insomma viviamo in un mondo in cui il rimpiazzo è talmente veloce da mettere in questione l'identità del rimpiazzato. Un po' come la celebre (in filosofia) nave di Teseo, in cui pezzi vengono cambiati man mano, finchè di originale non v'è più niente. Se una cosa del genere accade a te, e ti accade alla svelta, chi sei allora? Non ti sei forse perso a te stesso? E infatti ecco come continua l'aforisma da cui sono partito inizialmente:

"Perchè, per quanto lottino con forza, sanno di essere destinate a perdere. E a quel punto è completamente inutile tentare di lottare".

(Non è una prospettiva teorica, in giro, per strada e per le aziende, di persone che si sentono così ne trovo... forse non tante, perchè di solito si fermano ancora prima, ovvero si arrendono senza lottare gran chè, ma alcune, che arrivano a sfinirsi, a disperare oggettivamente, sì)

Ma chiedo e vi chiedo: è proprio così? La perdita dei principi, dei punti di riferimento, delle abitudini, e quindi dell'identità (così come la conosciamo) è per forza una catastrofe (il mondo descritto da Auster in Nel paese delle ultime cose è catastrofico, orribile, disperato...)? Perdersi a se stessi è per forza una sconfitta? Non sapere più cosa ci aspetta è per forza una disperazione? L'incertezza (forte, strutturale, fondativa) comporta per forza l'assenza di speranza?