Sono un consulente aziendale, un coach e un consulente filosofico. Mi occupo di persone e organizzazioni. Qui scrivo di come cambiare le une e le altre. In particolare, ma non solo, con le pratiche filosofiche. Perchè, come dice Wittgenstein, "compito della filosofia è mostrare alla mosca come uscire dalla bottiglia". E... giusto per essere chiari: qui le mosche siamo noi. Per chi desidera scrivermi c'è l'e-mail paolo.cervari@gmail.com, mentre per saperne di più su ciò che faccio c'è www.cervari-consulting.com.

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giovedì 29 dicembre 2011

Guerra originaria

Ho appena finito di leggere Bisogna difendere la società, uno dei corsi di fine anni Settanta al Collége de France di Foucault, che mi ha lasciato un'idea che credo importante. Sostiene, Foucault, che fino a circa il Seicento, la teoria e la filosofia politica si sono fondate su un'idea di sovranità che comportava un'armonia, un'omogeneità e una pacificazione che affondavano le proprie radici nella teoria platonica e aristotelica della polis, e prima ancora, mi viene da aggiungere, nel modello cosmologico del mondo di quaggiù, l'armonia celeste che propaga la sua immagine potente almeno fino a Kant, al suo cielo stellato, che stava sopra di lui a infondere cosmica armonia come e quanto altrettanto faceva la legge morale in lui. Il sovrano, il re, rende abitabile, prospero e armonico il popolo e il territorio: lo costituisce. Ma a partire dal Seicento - dalla sua fine - prende forma un altro paradigma: quello della guerra. All'origine della società non c'è il caos, poi normalizzato dal sovrano (e Hobbes con la sua astratta guerra di tutti contro tutti rientra secondo Foucault in questa tradizione), bensì la guerra tra due fazioni, una ferita, una differenza insanabile tra dominanti e dominati, tra invasori e invasi... idea che tra l'altro sta alla base di quel delirante e meraviglioso libro teso tra neolitico e quest del Graal, tra culti matrilineari e calendari celtici agresti che è La Dea Bianca di Robert Graves. Secondo quest'idea, quella presentata da Foucault, all'origine della storia, dunque, non c'è l'indifferenziato o il caos, ma una polarizzazione originaria tra noi e loro: un conflitto. Foucault non lo dice, ma è possibile a mio avviso ritrovare questa tradizione nella storia della filosofia europea premoderna. Penso per esempio a Eraclito o a Democrito, o a Vico o a Machiavelli, benché quest'ultimo Foucault escluda esplicitamente da un philum che secondo lui nasce nella storia europea soltanto alla fine del Seicento. Al di là di questo, tuttavia, credo che sia interessante l'alternativa: armonia o conflitto? All'origine cosa c'è? Perchè il punto chiave sta in questo: se c'è l'armonia allora bisogna tornarvi, ma se c'è il conflitto si può solo andare avanti, concluderlo, risolverlo. Ovvero progredire, e non è un caso che Foucault ponga questa idea del conflitto originario all'origine (non so se è solo un bisticcio di parole) della modernità. Inoltre c'è un'altra conseguenza importante: se il primum è il conflitto allora il pensiero strategico, lo schierarsi da una parte o dall'altra, è questione necessaria e forse insuperabile. Il che implicherebbe che qualsiasi elogio dell'armonia altro non sia che ideologia volta all'autocelebrazione dei vincitori o, il che in fondo è lo stesso, volta a imbrogliare o mantenere sottomessa la controparte, il partito dei vinti. E dunque: la verità è neutra, una, forse divina, o solo differente, molteplice e schierata? Ed è solo questa l'alternativa possibile?

domenica 4 dicembre 2011

Charlene Li

E' un cosidetto guru aziendale. A me piace. Dice delle cose interessanti su social network, mercati e sviluppo organizzativo: qui.

mercoledì 7 settembre 2011

Animali storici

Ryszard Kapuscinski (chiedo venia per le lettere slave storpiate) nel suo bellissimo Nel turbine della storia (Feltrinelli) dice a un certo punto del primo articolo della raccolta "che tre sono i principali pericoli che minacciano la memoria. Il primo è l'enorme sviluppo dei supporti di memoria", il secondo, continua Kapuscinski, è "l'eccesso di dati", il terzo "é la grande accelerazione dei processi storici" per cui "abbiamo perso il senso della stabilità e della familiarità col mondo".
Ciò che mi piace di questo grande giornalista è che pensa con la sua testa e si esprime senza giri di parole, in pratica ci dice: le cose sono sempre di più, le registrazioni pure e i supporti di memoria, ovvero le esternalizzazioni della nostra mente, sempre più potenti. Fine della memoria dunque? Ma non lo si è detto anche alla comparsa della scrittura? I somali trent'anni fa sapevano all'incirca 100 numeri di telefono e i popoli senza scrittura avevano una memoria prodigiosa... Credo che la questione non stia in questi termini. Credo che la memoria cambi nel tempo procedure, supporti, modalità di registrazione e quindi anche di gestione, modo di produzione e qualità. Insomma da un periodo storico all'altro di regola non è più la stessa e io per esempio, oggi, non mi ricordo più, a differenza di decenni fa, dati bruti, ma se mai indicatori e processi per trovarli o combinarli o produrli. Da sempre la tecnologia che, secondo Leroi Gourhan, esternalizza facoltà prima precipuamente umane (dalla mano alla zappa, dall'unghiata alla freccia, dal ricordo alla scrittura e al chip), ci sottrae la padronanza delle stesse per aprirci, in compenso, nuove possibilità e nuovi mondi. E bene fa Kapunscinski a ravvisare pericoli per la memoria, ovvero, per meglio dire, trasformazioni.
Ma non credo che l'esito sarà la distruzione della memoria, così come il cavallo e l'automobile non ci hanno privato dell'uso delle gambe, ma semmai aperto il varco allo sport e alla palestra. Piuttosto credo che la questione stia nella trasformazione in atto dei meccanismi di narrazione, di tramandamento e di tradizione, ovvero di storicizzazione. Che stanno cambiando profondamente. Come? Questa mi sembra una buona domanda.... Anche perchè la storia è a mio parere una dimensione propria, specifica e imprescindibile dell'umanità. Come dire: se siamo animali politici è anche perchè siamo animali storici. O no? Possiamo essere non storici?

giovedì 25 agosto 2011

Siamo tutti soggetti postraumatici

Il concetto di soggetto postraumatico e di matrice psicoanalitica ed è stato discusso e sviscerato da Zizek nel suo libro Vivere alla fine dei tempi (Ponte alle Grazie). Si tratta di un soggetto che in un certo qual senso non è più tale, ovvero è l’ombra, lo spettro, di se stesso. “In altre parole, quando abbiamo a che fare, diciamo, con un malato di Alzheimer, il punto non è solo che la sua consapevolezza è pesantemente limitata, che l’ambito dell’Io è ridotto, ma piuttosto che non abbiamo letteralmente più a che fare con lo stesso Io. Dopo il trauma emerge un altro soggetto, stiamo parlando a uno sconosciuto” (pag. 424). Ma chi è costui? Che gli è successo? Sappiamo di certo, come si dice, che “non è più lui”. Ma, secondo Zizek, in un modo molto particolare. Praticamente, semplificando, il trauma che rende così piatto e spettrale il soggetto postraumatico è una sorta di ripetizione della soggettivazione vera e propria, che avviene, secondo Lacan, precisamente attraverso la perdita di un’illusione, narcisistica, di essere uno con la Cosa (la Madre). Ma se quella prima tragica esperienza traumatica conduceva a una vita di lavoro e desiderio, perché attraverso la funzione paterna, ovvero la castrazione, il soggetto, per l’appunto veniva ad essere come ciò che restava ancora possibile dopo quella perdita, e solo così era lui, ovvero soggetto, con il trauma che produce il soggetto postraumatico, invece, avviene precisamente la perdita di quella condizione soggettiva così dolorosamente conquistata. Insomma si ripete la perdita, ma stavolta, si perde tutto. Un po’ come in certi racconti kafkiani, sto pensando a Davanti alla legge, in cui si patisce di una condizione dura e dolorosa, per scoprire poi alla fine che ci viene tolta anche quella. E in modo inappellabile. Esattamente come accade ai migranti quando vengono imprigionati o costretti in condizioni subumane. Insomma questa seconda perdita è ben più dura e definitiva, perché ci toglie la possibilità di lavorare, di darci da fare, di cercare una soluzione. Game over. Niente da fare. La porta si chiude. Fine della speranza.

Disperazione: questa è la condizione del soggetto postraumatico. I suoi archetipi, non a caso, sono il “muselmann” completamente inebetito del lager, il malato di Alzheimer, chi è stato colpito da una catastrofe insuperabile, sia essa fisica, mentale o simbolica e culturale, e si ritira nel nulla dello stordimento e dell’anestesia (penso per esempio all’alcolismo presso gli amerindi o gli aborigeni australiani).

Ma questo inebetimento, questa insensibilità, questa anestesia, non sono il nostro bagno di cultura quotidiana? Non siamo stati tutti rapinati e scippati di qualcosa di “nostro”, del senso della vita, del nostro vero io, di una speranza, di un afflato di autenticità che a malapena ricordiamo? E non ci rifugiamo noi tutti in pratiche ripetitive e istupidenti come guardare la televisione, fare cose trite e senza valore, ripetere come automi l’identico senza avere più nessuna voglia e nessuna speranza, se non quella vogliuzza per l’oggi e quella per il domani, una birra e un scopatina, l’ultimo film di pinco pallino (se vuoi far l’intellettuale), una corsetta in palestra o un flirt, quelle vogliuzze dicevo, che Nietzsche ha descritto come il placido e inconsapevole inferno dell’ultimo uomo?

E siccome l’ultimo uomo è l’ultimo baluardo contro l’avvento del superuomo… non varrebbe la pena di gettare il cuore oltre l’ostacolo? Come diceva Marx, parlando alla fin fine della stessa cosa (lui la chiamava comunismo), c’è un momento in cui non ce n’è più per nessuno e le chiacchiere non bastano più: hic Rhodus, hic salta!

E si può fare, perché in fondo non è vero che siamo soggetti postraumatici: ci turbano tanto, loro, i soggetti postraumatici, perché in realtà li mimiamo (o forse loro imitano noi…) e ci ricordano che a forza di recitare questa farsa… potremmo davvero diventare così!

mercoledì 24 agosto 2011

Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 8

Con rimando ai precedenti post che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 8 è:

Espandere e sfruttare la diversità. Dobbiamo creare un sistema manageriale che dia valore alla diversità, al disaccordo e alle divergenze tanto quanto alla conformità, al consenso e alla coesione.

In altri termini: democrazia. Non solo e non esclusivamente, certo. Diciamo allora… idiofilia? Amore e attenzione per ciò che è unico, strano, diverso? Questo è il compito. Perché la diversità è ricchezza, ulteriore possibilità, spazio di gioco e di manovra, brodo di coltura di nuove idee, soluzioni, procedure. Parlando da filosofo (che si è formato su Derrida, il cui testo forse più importante si intitola La differance, per cui figuratevi quanto sono d’accordo) la differenza è la vita, è l’origine di ogni cosa (lo direbbe anche Hegel). Ma scendiamo dai cieli dei filosofi. Che significa in pratica? E come si fa? Per quanto riguarda la prima domanda non mi viene in mente niente di meglio che rimandare al celebre discorso di Steve Jobs all’università di Stanford, che si conclude tra l’altro con l’esortazione a essere folli (sic!). Per quanto riguarda la seconda, posto che siamo d’accordo con quanto detto sopra, il problema è trovare il modo di ridurre i costi di transazione, negoziazione e traduzione. Si, perché, se è vero che diversità, stranezze ed idiosincrasie sono una risorsa, la questione sta nel come accedervi in modo efficace ed efficiente a costi bassi, evitando nel contempo che la loro stessa esistenza e vitalità non comporti costi o problemi (in parole povere che la differenziazione non combini casini). Ora, come dice Gary Hamel nel suo già più volte citato Il futuro del management, noi esseri umani abbiamo già da tempo inventato sistemi per valorizzare le differenze senza fare troppa confusione. Sono sistemi complessi, capaci di grandi fluttuazioni interne e, insieme, efficaci autoregolazioni. Sono le grandi città, i movimenti religiosi, i mercati, le società democratiche. C’è poi la vita, ovvero gli organismi biologici e le popolazioni (di merluzzi, di gnu, per esempio), che è un’altra e forse ben più importante maestra di come fare un sacco di cose tollerando una complessità e una differenziazione interna stupefacente. Si, certo, si dirà, ma a parte il fatto che non sempre queste cose hanno successo, come fare per organizzare un’azienda in quel modo? Con quali vincoli, regole ecc.? Ora, se è vero che città, mercati e così via non sempre hanno successo… bè, non fatemi dir delle aziende – vi ricordate i fratelli Lehman? Quanto alla questione vera e propria, quella relativa all’organizzazione di un’organizzazione così “disorganizzata”, lo strumento c’è. E non è soltanto un mero strumento, ma un modello, un paradigma: si chiama web 2.0. Le organizzazioni sono dei sistemi sociali? Che si attrezzino da social network!

Per maggiori informazioni vedi http://managementlab.com e "Le grandi sfide per il management del XXI secolo", in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.

domenica 21 agosto 2011

La fidanzata automatica

Uno dei numi tutelari del pragmatismo, William James, ci narrò un bel giorno l'apologo della fidanzata automatica, che più o meno liberamente interpretato suona così: un uomo (tu) ha una fidanzata perfetta, di cui è innamoratissimo e che si comporta esattamente come per lui è il meglio possibile, compresa una piccola quota di dissenso e divergenza (insomma, rompe un po', come è giusto che sia). L'uomo é felice, solo che un bel giorno gli rivelano, inoppugnabilmente, ovvero svitandole un pezzo di cranio, che è un automa, perfettamente programmato per stare con lui. Ora, posto che un tale oggetto (se è un oggetto) non esiste, la domanda che vorrei fare è: qualora esistesse, l'uomo (tu... ovviamente la storiella si può simmetrizzare per le signore), continuerebbe a essere innamorato di lei o no? La risposta, io credo, è no. Ma quello che è interessante è il perchè. Andiamo per le spicce, senza tante elucubrazioni: quello che è cambiato è solo che adesso lui lo sa, ovvero sa che lei è un automa. Prima a lui la fidanzata (segretamente automatica) andava benissimo, anzi, era la donna della sua vita. Dunque cosa è cambiato? Che lui ora sa che lei non era come lui pensava che fosse, ma bensì lei è com'è, ora che sa com'è. Ma qual'è la differenza? Che è programmata. Ovvero non è libera. Ma che differenza fa? Perchè nella pratica non c'è nessuna differenza, l'unica vera differenza è che lui lo sa. E dunque? Cosa manca alla fidanzata automatica? Nulla, eppur qualcosa, un "non so che". Anzi precisamente un "non so che" inteso nel senso di un margine di alea e di rischio, vale a dire per l'appunto l'idea, anzi il fatto, che non sia tutto prefissato. Tralascio di inoltrarmi nella discussione su cosa sia la libertà, perché credo che sia più interessante restare su questo reperimento indiscutibile: se lui non lo avesse saputo... ma ora che lo sa... E ricordare che quel "non so che" che fa la differenza è un tema discusso sia in estetica (direi nel '700 soprattutto se non ricordo male) sia da Lacan, che lo collega all'oggetto /a/ ovvero a quel sovrappiù fatto di niente in cui si cela il segreto del nostro desiderio e, infine, da Jankelevic che ha scritto il bellissimo ll non so che e il quasi niente (appunto). Ora, cosa accomuna tutte queste visoni? Che hanno in comune queste diverse riflessioni sul "non so che" che, ricordo, rende una fidanzata vera migliore di una fidanzata automatica? Con l'idea di singolarità, di contingenza, di irripetibilità. E infatti, a ben pensarci, non vorrei la fidanzata automatica perchè se ne potrebbe fare... un'altra uguale.

Oppure, ipotesi estrema, forse potrei volere una fidanzata automatica, a condizione di non avere più nulla da aspettarmi da quelle vere. Che è in fondo la condizione di quello che chiamo il soggetto postraumatico (vedi i tag omonimi): la disperazione, il futuro azzerato, l'assenza di desiderio... se non mi aspetto più nulla, allora una fidanzata automatica è perfetta. Mi allevia il dolore. Come lo Xanax. Ma ecco che, forse, lei potrebbe rivelare, in modo sottile, un volto nascosto, perchè in fondo chi può essere certo che non possa esprimere una soggettività? A volte è nel più profondo degli abissi della disperazione che può nascere la speranza e là dove c'è il pericolo cresce ciò che salva (Holderlin citato spesso da Heidegger). Già, perchè forse ancora bene non sappiamo cosa sia un soggetto (James non poteva conoscerlo, ma se avesse letto tutto quello che ci ha detto Asimov sui robot... per non parlare di Philip Dick, o dell'Odradek di Kafka).

Tu sarai fuori di te

"Vattene dal tuo paese, dalla tua patria
e dalla casa di tuo padre,
verso il paese che ti indicherò."

Sono parole di Dio. Ad Abramo. Che ovviamente le riceve in ebraico antico, dove "vattene" si scrive Lech lechà, che suddiviso così, Lech le-chà, può significare anche "vai verso te stesso". Come dire che per trovare te stesso devi andartene da te stesso. Uscire, andare fuori. Fuori da ciò che sei. Per questo follia e saggezza si toccano (extrema tanguntur).

Qui sta l'essenza della riflessività, che non è la ripetizione dell'identico, ma qualcosa in più, perché c'è la ripetizione.

sabato 20 agosto 2011

C'è un prezzo per tutto

"Costoro non conservano nella loro memoria il ricordo del passato, né se lo rammentano, ma lasciano che questo svanisca a poco a poco, in realtà rendendosi così, giorno dopo giorno, sempre più sguarniti e vuoti, quasi sospesi al giorno che deve ancora venire, come se gli eventi accaduti l'anno già passato, l'altro ieri o ieri non li riguardassero, e non fossero neppure a loro appartenuti". Sono parole di Plutarco (Peri euthumias), riportate da Foucault in L'ermeneutica del soggetto (lezione del 24 Marzo 1982), che così le chiosa: "Il che equivale a dire che costoro sono votati non solo alla discontinuità e al trascorrere, ma anche alla perdita di sè e al vuoto. Essi non sono realmente più nulla. Si trovano nel vuoto".
Ora, posto che si stanno decrivendo gli stulti, ovvero coloro che "si trovano esattamente nella posizione opposta a quella filosofica", e che tale descrizione va riferita al periodo ellenistico, ciò che mi ha colpito è che questa descrizione va benissimo per noi. Non facciamo esattamente così? Non è questo uno dei sintomi del (o il) male del nostro tempo? E trovo molto interessante che l'essenza della stultitia risieda nell'oblio... Ed è per questo che il soggetto che ha l'alzheimer, ovvero quello che io chiamo sulla scorta di Zizek il soggetto postraumatico, è oggi così importante per noi: è il nostro specchio, in fondo, quello che noi siamo. Senza storia, senza (vero) futuro. Insomma, rincoglioniti. Ma la domanda importante a questo punto è: cosa ci ha condotto qui? Qual'è il punto chiave? In un modo un po' fortuito e un po' pop, se vogliamo, ho trovato una risposta in un libro di un autore che ho già citato, Qiu Xialong, che s'intola Ratti Rossi. Siamo in Cina negli anni della transizione e si sta parlando del fatto che si pagano le celebrità per farsi fotografare con loro. Il protagonista conclude sconsolato: "C'è un prezzo per tutto". E il narratore commenta: "Ed era quello il problema. Si rendeva omaggio all'ideologia comunista solo a parole. Nonostante il Quotidiano del popolo e i documenti di Partito, la realtà sociale era che tutti, dal primo all'ultimo, pensavano a se stessi." Ci sarebbe ancora molto da dire, ma voglio tagliare corto con una domanda: dove si è e come si è quando la vita stessa di una persona (di tutte le persone, forse...) è diventata una merce?

domenica 14 agosto 2011

Filosofia come politica

"La questione della filosofia è la questione del presente che noi stessi siamo. E' per questo che oggi la filosofia è interamente politica e interamente storica. E' la politica immanente alla storia, è la storia indispensabile alla politica."

Michel Foucault, Dits et écrits, Gallimard, III, p. 266

sabato 13 agosto 2011

Cornici

"Un professore di filosofia sale in cattedra e, prima di iniziare la lezione, toglie dalla cartella un grande foglio bianco con una piccola macchia d'inchiostro nel mezzo. 'Che cosa vedete qui?'. 'Una macchia d'inchiostro', rispose qualcuno. 'Bene', continua il professore, 'così sono gli uomini: vedono soltanto le macchie, anche le più piccole, e non il grande e stupendo foglio bianco che é la vita'."

Vittorio Buttafava

Santi e animali

"Santi e animali non sono mai frustrati: vanno sempre avanti."

Anthony De Mello, Il messaggio

Lode alla noia

"Solo la noia permette di godere del presente, ma tutti hanno l'obiettivo opposto: per divertirsi gli occidentali evadono attraverso la televisione, il cinema, internet, il telefono, i videogiochi, o una semplice rivista. Fanno le cose ma non ci sono mai con la testa, vivono per procura, come fosse un disonore accontentarsi di respirare qui e ora."

Frédéric Beigbeder, 999 Francs

Che fa il paio con:

"Tutta l'infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restarsene tranquilli in una stanza."

Blaise Pascal, Pensieri

Io sono molto d'accordo: i momenti migliori sono quelli in cui si sospende la necessità ossessiva di produrre, e ci si consegna all'inutilità. Che scandalizza: provate a rispondere "niente, mi lascio vivere" a chi vi domanda "cosa fai di bello nella vita"? E questo mi fa venire in mente un altra cosa: l'ailanto di Chuang Tzu (meno noto del cuoco), di cui il noto saggio taoista tesse le lodi dicendo che poiché non dà frutti e il suo legno non arde bene, siccome è dunque del tutto inutile, cresce prospero e ci può dare di che riposare sotto la sua fresca ombra.
Ho sempre desiderato essere un ailanto.

Ma allora che fare? Per proseguire con le parole di Beigbeder (sempre tratte da 99 Francs, un romanzo che consiglio di leggere), dato che "l'uomo continua a fuggire la propria angoscia con il divertimento (...) come fuggire il divertimento? Affrontando l'angoscia."
Niente di nuovo, per carità, lo diceva anche Heidegger. Ma proviamo a farlo: non è come dirlo.

Capitalismo

"Il capitalismo trasforma gli esseri umani in yogurt deperibili, drogati di spettacolo, cioè addestrati ad annientare il prossimo"

Frédéric Beigbeder, 99 Francs

venerdì 12 agosto 2011

Tra scienza ed esperienza (di sé)

Nello splendido corso del 1981-1982 intitolato L’ermeneutica del soggetto, Michel Foucault, verso la fine, nella lezione del 24 Marzo, si lancia in un grande affresco storico dicendo che “in Occidente, in fondo, sono state conosciute e messe in atto tre grandi forme di esercizio del pensiero, di riflessione del pensiero su se stesso, vale a dire tre grandi forme di riflessività”. Esse sono, continua Foucault, la memoria; esercitata dagli antichi greci come strumento per ritrovare le eterne verità dimenticate dall’anima; la meditazione, esercitata nel periodo ellenistico romano e quindi, in modo un po’ diverso, nel cristianesimo, per avere cura di sé e formare il soggetto come soggetto di verità, ovvero dai pensieri e dalle parole coerenti con gli atti e le opere; e il metodo, ovvero il dispositivo di nascita cartesiana e poi al cuore della scientificità moderna, secondo il quale si reperisce a forza di dubbi radicali la certezza sulla quale edificare la conoscenza. E fin qui tutto bene, anche se chiaramente molto semplificato. Ma vi sono delle belle complicazioni. Soprattutto quella per cui se per l’appunto col cartesianesimo “il legame tra l’accesso alla verità, divenuto sviluppo autonomo della conoscenza, e l’esigenza di una trasformazione del soggetto, e del suo essere, da parte del soggetto stesso, è stato credo, definitivamente spezzato” (lezione del 6 Gennaio), ecco che subito dopo Foucault aggiunge che “è inutile che vi dica che, quando affermo che mi sembra che tale legame sia stato definitivamente interrotto, non ci credo neanche un po’”, per proseguire poi con un inquadramento di fenomeni quali il marxismo e la psicoanalisi nel più ampio alveo di una sorta di sopravvivenza di quella trasformazione del soggetto ad opera del soggetto stesso che l’autore non esita, proprio in queste pagine, a chiamare “spiritualità”. E per di più, in tutta questa storia, Foucault non trascura mai di fare riferimento, senza mai approfondire a causa dei limiti storici dell'argomento del corso, al cristianesimo che, in sintesi, fa evolvere la meditazione verso un dire la verità su di sé – dove possiamo indovinare, finalmente con chiarezza, le radici cristiane della psicoanalisi.

Scusate per il lungo riassunto, ma tutto questo mi serve per porre una questione: dove siamo oggi? Qual è la forma di soggettività, la forma di “riflessività” (parola che sposo in toto) che ci contraddistingue oggi? Perché una cosa è certa: l’idea che sia possibile accedere alla verità su di sé mediante la scienza (il metodo), se mai ha avuto corso legale, oggi è più che mai messa in questione dal fatto che da almeno mezzo secolo è chiaro a tutti come il soggetto sia implicato in ogni proferimento (anche in quelli scientifici). Non si tratta soltanto dell’errore di Cartesio, come direbbe Damasio, ovvero dell’esclusione delle emozioni e della situazionalità, ma del fatto che ogni frase “è detta da un osservatore”, come direbbero Maturana e Varela, per non parlare di tante altre questioni note, che vanno dal teorema di Goedel, al principio di indeterminazione di Heisenberg, dalla sovradeterminazione del senso di matrice freudiana al paradossale rapporto che lega il soggetto dell’enunciato con quello dell’enunciazione in Benveniste (mi si scusi l’esibizione di erudizione, peraltro media e modesta, ma qualche riferimento va pure dato).Insomma non siamo mai fuori gioco, non c’è un terreno di gioco esterno a noi e il soggetto qualunque cosa faccia o dica, nel contempo si divide e trasforma sia se stesso che il mondo. Fine del sogno hilbertiano di calcolare tutto. Anche perché, come mostrò magistralmente per illustrare il concetto di complessità uno scrittore a me caro, Samuel Delany, in uno dei suoi romanzi (credo si tratti di Stella imperiale), se fai il dizionario del mondo, quando hai finito sono sorte già molte parole nuove e devi pure dare un nome al dizionario, aggiungendo ad esso una parola che, aggiungendosi alle altre, lo cambia…

E dunque? Siamo al ritorno della spiritualità? Certo i segni dei tempi depongono a favore: e cosa mai cercherebbero, infatti, se non proprio una via di trasformazione di sé, tutti coloro che si rivolgono a sette e buddismi, analisi transazionali e psicologie positive, coaching e psicoterapie varie, per non parlare di chi (avis rara) sperimenta la consulenza filosofica? D’accordo… ma che caratteristiche ha questa nuova (nuova?) forma di riflessività, ovvero di soggettivazione che pare (forse) affacciarsi tra noi a partire (direi) dalla postmodernità? Foucault ci ha dato qualche indicazione, sparsa qua e là nei suoi testi, e voglio evocarne una, che ci regala proprio alla fine del corso in questione (sempre la lezione del 24 Marzo), dicendo che “la sfida lanciata dal pensiero occidentale alla filosofia (…) consiste nel chiedere in che modo ciò che si dà come oggetto di sapere articolato sul dominio della tekhne [qui Foucault sta alludendo al mondo], possa essere al contempo il luogo in cui si manifesta, si mette alla prova, e con difficoltà giunge a compimento, la verità di quel soggetto che noi stessi siamo. E in che modo il mondo, che si dà come oggetto di conoscenza a partire dal dominio della tekhne, possa essere al contempo il luogo in cui si manifesta e in cui si mette alla prova il “se stessi” come soggetto etico di verità”, specificando poi che si tratta di capire come sia possibile che il mondo sia ad un tempo oggetto di conoscenza e luogo dell’esperienza (trasformativa) del soggetto. Detta così sembra che si ripercorra la vecchia distinzione tra scienze della natura e dell’uomo, o per dir meglio, nomotetiche e idiografiche (secondo la terminologia di Windelband), ma v’è un passo di Le parole e le cose in cui Foucault (decenni prima) ci evoca la struttura della soggettività moderna ai suoi albori riferendosi a una sua icona celeberrima: Don Chisciotte, che ha scienza (ha letto molti libri, fino a perdere il senno) e non esperienza, e Sancho Panza, che ha esperienza (parla per proverbi e ha senso pratico) e non scienza. Mi ricordano il cieco e lo storpio, devono stare insieme per procedere, ma a differenza loro, senza integrarsi gran ché, tant’è che il loro è un dialogo tra sordi, e per questo comico. In questo stare insieme, come dice Foucault, ad un tempo, e in questo difficile dialogo tra scienza ed esperienza, e nel vuoto attorno a cui esso si articola, credo si celi la chiave interpretativa per decifrare l’enigma della nostra, contemporanea, forma di soggettività.


mercoledì 10 agosto 2011

La vita e la verità

"La nostra vita è lo strumento mediante il quale compiamo esperimenti con la verità".

Thich Nhat Hanh

Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 7

Con rimando ai precedenti post che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 7 è:

Ridefinire il lavoro di leadership. La nozione de “il” leader come eroico decisore è indifendibile. I leader devono essere rimodellati come architetti di sistemi sociali che favoriscono l’innovazione e la collaborazione.

Ed eccoci finalmente! Il sacro totem della leadership è stato tirato in ballo! Del resto il nostro Gary Hamel (ricordiamo che è dal suo libro Il futuro del management che abbiamo tratto la sostanza delle 25 sfide per il management di domani) non poteva certo farne a meno. Ma vediamo di approfondire un po'. In primo luogo vorrei ricordare che quanto sopra presuppone uno spostamento lungo quello che è chiamato lo spectrum della leadership dal polo gestione-controllo verso il polo coaching-guida. E come potrebbe essere altrimenti? Se infatti bisogna generare innovazione, e per farlo è necessario un clima di collaborazione, ecco che il nostro leader da intrepido condottiero di truppe più o meno insipienti, inconsapevoli e illetterate si deve trasformare in leader politico di un popolo che sia in grado di essere soggetto (soggetto... bell'ambiguità di senso vero?). Anzi, a ben pensarci non deve essere un leader politico, ma un politico vero e proprio (se mai esiste, in questa accezione... diciamo di sì, se pensiamo a Gandhi, o magari a qualche grande statista del secolo scorso), ovvero un architetto di società, o meglio, come dice Gary Hamel, di sistemi sociali. Che significa? E soprattutto: come farlo? Posso dare solo qualche traccia di risposta. In primo luogo mi viene a dire che se si vuole far sì che tutti diano il meglio e tutti insieme si vada da qualche parte che abbia un senso, la prima cosa da fare è per l'appunto garantire che le persone sappiano cosa fanno e perché, qual'è l'obiettivo comune e addirittura la ragion d'essere del loro stare insieme a fare le cose che fanno e faranno. Il che mi fa venire in mente che forse servono degli ideali, dei valori comuni, dell'entusiasmo, della passione, della capacità di sacrificio. E in primo luogo da parte del leader stesso (mi viene in mente Gesù, del resto Hamel stesso dice che le religioni sono un buon modello di organizzazione, basata sulla passione). Inoltre, per fare tutto questo credo che il nostro leader debba essere credibile e autorevole. Forse anche amato e ammirato, perché no, ma solo in modo.... razionale, ovvero perché credibile e autorevole, il che in parole povere significa che... "mi posso fidare di lui". E per dirla ancora in un altro modo, a un tempo più semplice e più filosofico (il riferimento è agli stoici), significa che il nostro leader fa quello che dice e dice quello che fa. Insomma è (come diceva Foucault nel suo splendido corso su L'ermeneutica del soggetto) un uomo di verità. E immagino che a questo punto ci sia chi, leggendo, sobbalza sulla sedia: verità? In azienda? Ma dai... Ebbene, si, è quello che sostengo. La proposta ha a che vedere con un tipo di leader e manager "in pubblico" (ricordate il riferimento alla politica poco sopra?), che non è solo una mia invenzione e di cui potete trovare esplicazione e riferimenti nel mio (e di Neri Pollastri) libro Il filosofo in azienda (che potete trovare qui, con una presentazione invece qui), dove tra l'altro sulla leadership ci sono diverse pagine. E per concludere, come sempre vi accenno la litania, o se volete la critica: ma perché di queste indicazioni spesso e volentieri non si prende atto? Sto scrivendo mentre i mercati crollano... speriamo non sia necessario toccare il fondo. Ma qual è il fondo?

Per maggiori informazioni vedi http://managementlab.com e "Le grandi sfide per il management del XXI secolo", in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.

domenica 31 luglio 2011

Natura Inc

"La natura fornisce all'economia britannica servizi gratuiti per un valore di decine di miliardi all'anno, da luoghi e paesaggi ricreativi alla fertilizzazione dei terreni, alla purificazione delle acque. E' quanto emerge dalla prima valutazione finanziaria sistematica dell'ambiente. Condotto da cinquecento esperti nel campo dell'ecologia, dell'economia e delle scienze sociali, il National Ecosystem Assessment offre 'un nuovo modo di valutare la ricchezza nazionale', ha detto Lord Selborne, presidente dell'associazione governativa Living with Environmental Change."

Clive Cookson, "Nature worth billions, says environment audit", Financial Times 02 June 2011

Speriamo che la natura non chieda il conto in breve. Ma che tipo di contratto abbiamo con lei? Encomiabile comunque lo stile chiaramente humeano che traspare da questi inglesi, perchè portando all'eccesso la nostra logica forse possiamo arrivare a ribaltarla: che debito abbiamo accumulato? E come lo ripianiamo? E qual'è il tribunale competente? In questi casi ci vorrebbe Dio, ma per rimanere in stile british, come dice P.J. Farmer in Venere sulla conchiglia, Dio, per l'appunto, "qualche secolo fa è andato a bere una birra e da allora non si è più visto". Per cui col nostro socio di fatto Natura Inc. dovremo trattare da soli.

giovedì 21 luglio 2011

L'importanza della fiducia

“I team che vivono in una cultura di responsabilità, collaborazione e iniziativa sono più portati a ritenere di potere affrontare qualsiasi tempesta. La fiducia in se stessi, insieme alla fiducia reciproca e nell’organizzazione, motiva i vincitori a determinare quella spinta in più in grado di fornire il margine per la vittoria. La lezione per i leader è chiara: costruite la pietra angolare della fiducia – responsabilità, collaborazione e intraprendenza – quando le cose vanno bene, e i risultati arriveranno facilmente”.

Rosabeth Moss Kanter, Harvard Business Review Italia, 05 2011 p. 6

Tutti insieme

"...gli uomini cioè non possono desiderare niente di più efficace alla loro conservazione di questo: che tutti convengano in tutte le cose in modo che le menti e i corpi di tutti vengano a comporre una sola mente e un solo corpo, e che tutti insieme, per quanto possono, si sforzino di conservare il loro essere, e che tutti insieme desiderino per sé l'utile comune".

Baruch Spinoza, L'etica dimostrata secondo l'ordine geometrico, prop. 18 Scolio

Mi piace pensare che "conservazione" è anagramma di "conversazione"...

martedì 19 luglio 2011

Nachtraglich

"Dal punto di vista della storia mondiale, la guerra del Peloponneso ebbe luogo affinché Tucidide potesse scrivere un libro su di essa". E' una frase molto hegeliana, quasi caricaturale, che si permette Zizek, a scopo didattico, nel suo bellissimo e già più volte da me citato (vedi tag Zizek) Vivere alla fine dei tempi, libro a mio avviso intrigante quanto irrisolto, un poco come L'uomo senza qualità, che adoro da sempre, più o meno da quando ho vent'anni. Ma tralasciando queste idiosincrasie autobiografiche, mi chiedo e ti chiedo: cosa estrarre dalla citazione di cui sopra, che non ho messo a caso (immaginerai, spero, mio ipocrita lettore, come direbbe Baudelaire)? Che il senso si costruisce posteriormente, ovvero, in inglese, mediante feedback retroattivo, oppure, in tedesco, in modo nachtraglich (termine chiave, secondo Lacan, in Freud). Il che significa, detta in soldoni, che non saprai mai se sarà stato vero amore finché non ci avrai provato. E solo dopo sarà stato vero. In altri termini, il senso di questa frase, di questa che sto scrivendo all'uopo e tu in questo momento stai leggendo, lo potrai sapere solo ora. Che questo movimento si manifesti precipuamente nel linguaggio, e in particolare nel suo coté performativo (ovvero nel fatto che ogni proferimento è un'azione, anche e soprattutto), è una delle questioni che mi piace mantenere vive e indagare, perché mai finiscono di dare frutti.

domenica 17 luglio 2011

Il soggetto postraumatico: il vuoto interiore

“Ultimamente, Halliday si era reso conto di essere persino in grado di convivere con la propria non-esistenza, visto che non aveva senso piangere troppo a lungo la scomparsa di qualcosa – vale a dire di un se stesso – che nemmeno riusciva più a ricordare. Tutto ciò costituiva un motivo di ansia, ma di un’ansia ormai vecchia di giorni. Quello di adesso invece era un sintomo fisico. Riguardava l’esatta metà della testa, cranio e cervello, ed era una sensazione semplicemente non-definibile. Anzi, la si sarebbe potuta descrivere come l’improvvisa scomparsa di una sensazione talmente consueta e continua da non essere più percepita, come un suono di cui ci si accorga solo nell’attimo in cui si interrompe.” Il motivo per cui ho riportato questo passo di Amsterdam di Ian McEwan è che credo ci possa introdurre al mondo del soggetto postraumatico, di cui vorrei occuparmi per un po’, annunciando fin da subito che intendo per soggetto postraumatico da una parte quello che risulta da stress profondi e massivi, come per esempio un’esplosione, ma anche vi vedo, dall’altra, con il conforto di autori quali Zizek e Agamben, il paradigma della nostra condizione ipermoderna. In particolare, nel brano citato sopra, trovo interessante che il considerarsi inesistente sia cosa consueta, esattamente come accadde a noi nello scorso secolo con i paradossi del cogito cartesiano ovvero del soggetto moderno, che si scoprì per l'appunto inesistente, o per lo meno inconsistente, diviso e straniero a se stesso. Ma la novità, la cosa in questione, sta nella diversa percezione che s’annuncia, quasi subdolamente o meglio, in modo quasi strisciante, inapparente, asemantico: è sparito qualcosa di quasi-fisico e a questo qualcosa di quasi-fisico sono legati da una parte l’idea di una sensazione “consueta e continua”, come dire, una sorta di base continua (forse il cogito stesso, azzardo, anch’esso peraltro, come detto poco sopra, consueto), dall’altra la scomparsa di un sentire, o meglio forse del sentire stesso, ovvero del sentirsi sentire. Che il romanzo di McEwan si apra con una fulminante morte per Alzheimer non mi pare a questo punto un caso. Come non credo sia un caso che poco dopo, il nostro vacuo Halliday si senta meglio perché “adesso che era di nuovo in mezzo alla gente, immerso nel proprio lavoro, il vuoto interiore non lo affliggeva più”. Cosa abbiamo perduto? Perché la vita ci sembra senza senso? Cosa possiamo fare al riguardo? Credo che condividiamo tutti questi interrogativi. Come pure l'assenza di risposte. E forse vale la pena di cercarle.

giovedì 14 luglio 2011

Amore e Saggezza

"L'amore dice 'Io sono tutto'. La saggezza dice 'Io non sono nulla'. Fra questi due scorre la mia vita"

Sri Nisargadatta

domenica 3 luglio 2011

La bellezza é metafora

La bellezza è davvero, come diceva Sthendal, promessa di felicità? Io credo di sì, e ritengo che al riguardo vi siano oggi punti d’appoggio nelle neuroscienze. Infatti, non solo sono stati elaborati alcuni “principi” di neuroestetica (Ramachandran), ma più in generale penso che nella bellezza risuoni la metafora (o l’analogia) della metafora (o dell’analogia). Mi spiego. Se come pare, simulazione, replica e così via sono alla base del nostro sistema nervoso e di funzioni basilari quali la percezione, memoria, immaginazione e previsione (su questi argomenti posso rimandare a un libro di cui sono coautore: IES – Intelligenza empatico sociale, Franco Angeli; il sottitolo è: dai neuroni specchio allo sviluppo delle organizzazioni) allora metafora e analogia sono i “mattoni”, anzi i “funtori” chiave dei processi mentali (cosa che tra l’altro per certi versi sostiene o accenna di sostenere lo stesso Ramachandran). E se così è, perché non vedere nell’esperienza della bellezza l’esperienza ovvero l’analogia della metafora stessa? Da questo punto di vista una cosa bella sarebbe una sorta di esempio preclaro di buona metaforizzazione, una specie, per l’appunto, di metafora ben riuscita per antonomasia, il ricordo di una simulazione che risimulando la simulazione assurge ad archetipo stesso del simulare. Ovvero del meccanismo “x somiglia e sta per y”… cosa che tra l’altro sarebbe perfettamente coerente con la teoria estetica (poco nota in Italia) di Danto, il quale sostiene che un’opera d’arte è tale perché dichiarata tale, laddove nel meccanismo del dichiarare ci vedo il meccanismo dell’exemplum o se vogliamo della segnatura (Agamben) per cui estraendo un membro da una classe (quello più rappresentativo, quello che assomiglia di più – con un plus ovvero un “non so che” di somiglianza - a tutti i membri della classe) lo si rende segno e “nome” della classe stessa (è il meccanismo dell’antonomasia, ovvero quello per cui i fazzolettini di carta si chiamavano un tempo kleenex – che era una marca… archetipica). Insomma, anche qui ci vedo, in modo per quanto, ammetto, ancora embrionale e un po’ confuso, una sorta di convergenza e sovrapposizione tra rappresentare, significare e analogizzare per mezzo dell’esemplificazione analogizzante. Se ciò è vero, ne consegue a mio parere, che oggi l’arte contemporanea da una parte esibisce questo stesso meccanismo (che potremmo davvero chiamare come il suo fondamento neurologico “meccanismo specchio”) e dall’altro lo tradisce, ponendosi a un tempo a livello di eresia dell’arte o antiarte e, insieme, di discorso sull’arte. Che in questa deriva si perda l’esperienza dell’arte “bella” è cosa su cui meditare e credo sia analoga (ancora) a quella del capitalismo di oggidì, quello che ci costringe a scomposte e ossessive performance di sostituzione compulsiva dell’oggetto – e ci consegna così a un pulsione senza desiderio dove nel vortice del “godi più che puoi” ci si può tranquillamente infilare anche ciò che è brutto, disgustoso ed esecrabile. Qui forse si cela il mistero dell’emergere del kakon quale idolo nascosto della contemporaneità. Che è il negativo, in calco, forse, della felicità promessa dalla (perduta, come peraltro sempre forse essa è) bellezza. Per esprimerci una volta tanto davvero cripticamente: se il recupero del premoderno è garanzia a salvezza del senso messianico racchiuso nel movimento incessante della modernità, il futuro dell’arte non sta nella infinita metonimia del gioco del furetto (Lacan) della performance sempre nuova e diversa. E nemmeno nella metarte fine a sé stessa.

sabato 25 giugno 2011

Il nulla del nulla

"...il sentimento del nulla, è il sentimento di una cosa morta e mortifera. Ma se questo sentimento é vivo, come nel caso ch'io dico, la sua vivacità prevale nell'animo del lettore alla nullità della cosa che fa sentire, e l'anima riceve vita (se non altro passeggera) dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose, e sua propria". Splendide e icastiche parole di Leopardi (Zibaldone, 261) che ci mostrano una vola per tutte come il rapporto tra vita e morte sia a dir poco non semplice, come ho cercato di spiegare in un libro di prossima pubblicazione (Harry Potter e la (tua) morte). Anzi, volendo esagerare, varrebbe la pena di pensare al rapporto tra vita e morte come a un rapporto storico-dialettico, come quello che lega in Walter Benjamin il ricordo e la redenzione. Ovvero, per chiudere senza troppe filosofisterie: la depressione ha sempre un che di ideologico... tant'è che una delle modalità di approcciarla tipica della terapia strategica è chiedere al depresso: "ma come ci riesce a farcela, come le riesce di essere depresso?" Non prenda il lettore tutto questo in modo superficiale - ovvero lineare. Quello che intendo dire è che tutte queste... diciamo così, "nozioni" (vita, morte, ricordo, redenzione, nulla ecc.) non sono mai un che di dato, come peraltro a dire il vero nient'altro, ma, come ci ha magistralmente insegnato Michel Foucault, eminenti e basilari, nonchè mutevoli, costrutti storici.

Vita e sopravvivenza

Dice Zizek in Vivere alla fine dei tempi (pag. 18) che per ingaggiare la nostra battaglia politica, secondo "la formula di Badiou mieux vaut un désastre qu'un désètre, meglio correre un rischio e impegnarsi nella fedeltà a un Evento di verità, anche se si conclude con una catastrofe, che vegetare in quella sopravvivenza utilitaria-edonistica e priva di eventi che Nietzsche chiamò, "l'ultimo uomo". Ciò che Badiou rifiuta è quindi l'ideologia liberale del vittimismo, con la sua riduzione della politica a un programma per evitare il peggio, per rinunciare a tutti i progetti positivi e seguire l'opzione del meno peggio. Specialmente perché, come osservò amaramente lo scrittore ebreo viennese Arthur Feldmann, il prezzo che di solito paghiamo per sopravvivere è la nostra vita". Si, concordo del tutto, ma Zizek non ci spiega come fare. Perché il vero problema è che a volte ci s'ingaggia nel suddetto Evento di verità, e ci si resta fregati. Non solo perché si perde, ci mancherebbe, perdere è possibile, ma perché si scopre solo dopo che non era un Evento di verità, ma una fola, un fantasma, uno spettro. Insomma quello che ci manca è un rivelatore di verità, o per lo meno un metodo per non sparare nel mucchio. Per dirla in parabola, se San Paolo sulla via di Damasco ha capito che era Dio che gli parlava, oggi probabilmente avrebbe qualche dubbio e magari andrebbe dallo psichiatra. Senza di questo, senza questo metodo (brutta parola ne convengo, ma suona bene in un contesto che ha sempre favoleggiato di un "metodo rivoluzionario": Zizek è comunista), senza un qualcosa che ci consenta di scegliere con un minimo di probabilità a favore, avranno sempre la meglio quelli che ti promettono di soddisfare, come diceva ancora Nietzsche "una vogliuzza per la mattina e una per il pomeriggio". Insomma concludendo: per non oziare per sempre a Las Palmas (come evocava James Ballard nello splendido suo racconto Tanti saluti da Las Palmas) ci vuole qualcosa che ci scuota, si, ma anche qualcosa che ci dia un po' di ragionevole speranza.

martedì 7 giugno 2011

Le questioni più scottanti

Husserl in Die Krisis der europäischen Wissenschaft und die transzendentale Phänomenologie (trad. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2002) scriveva “Le questioni che la scienza esclude per principio sono proprio le questioni scottanti nella nostra infelice epoca per un’umanità abbandonata agli sconvolgimenti del destino: sono le questioni che riguardano il senso e l’assenza di senso dell’esistenza umana in generale”.

Mi colpisce che Husserl parlasse così già nel 1954, perché la questione posta in questo modo é comprensibile solo sullo sfondo della nostra contemporanea civiltà - e dunque aveva visto bene e abbastanza in anticipo. Nessun'altra civiltà si é infatti mai ritrovata di fronte al problema dell'assenza di senso, proprio perché il "senso" è un costrutto della civiltà stessa. La cosa rimarcabile é che noi abbiamo prodotto una civiltà che non fa più la civiltà, ovvero non si pone come culla del senso.

Siamo una civiltà senza senso. E dunque ci manca.

lunedì 30 maggio 2011

Gerarchia o comunità?

"Le gerarchie sono estremamente efficaci per aggregare lo sforzo. Ma quando bisogna mobilitare le capacità umane, le comunità fanno meglio delle burocrazie."


Gary Hamel, Il futuro del management

lunedì 16 maggio 2011

La vita dei morti

"Non c'era fretta, ma l'idea di fare qualcosa per una persona morta lo rincuorava". Sono parole scritte da Qiu Xiaolong in Quando il rosso é il nero, libro che vi consiglio insieme a tutti gli altri dello stesso scrittore, un cinese in U.S.A dall'89 che ambienta le sue detective story a Shangay, nella Cina degli anni di Deng Xiaoping. Si tratta di un modo accattivante per farci conoscere dall'interno una realtà che non ci é nota e forse un modo intrigante per conoscere il mondo in genere: la detective story, infatti, è oggi il genere di letteratura di maggior successo. Ma perché? Appunto... vediamo. Intanto è una ricerca e, come dice Xiaodong stesso in uno dei suoi retri di copertina, permette di bussare a molte porte diverse. E' dunque, e inoltre, una quest, o forse un Odissea (ma dove mai ci fa tornare?). Inoltre come molti hanno detto già prima di me, la tensione è verso la colmazione di una mancanza, la ricostituzione di un equilibrio lacerato dal delitto. Tuttavia c'è qualcosa ancora di impensato, credo, nel successo clamoroso del "giallo" come modo per avventurarsi nel mondo. E non credo sia solo questione di ripristinare un equilibrio, secondo una visione molto ingenieristica ed omeostatica del da farsi di derivazione molto occidentale. Certamente la morte, il morto giocano un ruolo essenziale nel fascino del "giallo", ma ci voleva forse proprio un cinese, un "altro", uno straniero, per rivelarci quel che forse non vediamo: fare qualcosa per i morti, forse è proprio questo il punto. Il "giallo" é forse, in fondo, quella preghiera che non sappiamo più fare. Non dunque un equilibrio da ridare ai vivi, ma una pace da donare ai morti. Si, ci voleva davvero un cinese per ricordarci che i morti non sono solo morti. Infatti sono stati vivi.

martedì 19 aprile 2011

Vitali malati di Parkinson

Sono stato a un convegno di malati di parkinson e ne ho ricavato una grande energia (ringrazio Lucilla Bossi - su di lei questo link che mi piace - presidente di Parkinson Italia, donna energica, notevole e un poco estrema, nel senso migliore del termine, ce ne fossero così, per avermi invitato e, a modo suo, nei preparativi, un po' scrollato). Cosa ne ho ricavato? Erano tutti lì, in attesa, come avviene nelle aule migliori: e quando sono tutti lì e ti chiedono qualcosa e pensano che tu glielo puoi dare, qualsiasi cosa sia, e ne hanno, e tu lo sai, buon diritto, e tu ne sei responsabile, tant'è vero che hai accettato di essere lì... bè non ti puoi esimere. E se hai qualcosa da dare lo dai. E se non ce l'hai... ti devi pentire. Ora, la cosa bella è che di solito, anche se non sai mai come va a finire, a me capita, grazie a Dio, o a che altro di simile, di riuscire a dare qualcosa. Come lo so? Bè... in genere dagli sguardi durante e dopo, e dalla quantità inaspettata di gente che viene a cercarmi dopo e a importunarmi (pensano) senza sapere (forse) quanto mi faccia piacere e quanto sia io, invece, a ringraziare, in cuor mio, loro. Un ulteriore ringraziamento a Carlo Gargiulo, che ha moderato e che, nonostante sia uomo televisivo, è riuscito con estrema eleganza a toccare e contenere un affondo sul dolore e la morte che andava gestito: lui mi ha aiutato in questo, con una saggezza e un equilibrio che mi hanno sorpreso e un savoir faire che gli invidio.

domenica 10 aprile 2011

Socrate, diglielo a Berlusconi

Non ho mai manifestato qui idee politiche di schieramento schierato, ma forse chissà, dati i recenti avvenimenti (digitate su Google il mio nome insieme alla parola "Buccinasco") ora mi sento più libero. Non farò mai polemiche di bassa lega, e tuttavia mi viene da dedicare o meglio destinare questo post a Berlusconi. Non solo per metterlo in croce, anzi, soprattutto direi, come controparte: mi piacerebbe sapere cosa potrebbe rispondermi. Seriamente. Fate conto che si parli a lui:

"Caro amico, tu sei Ateniese, cittadino della più grande e rinomata, per la sua scienza e la sua potenza, tra tutte le città, eppure non arrossisci nel riservare le tue cure alle tue ricchezze, per continuare ad accrescerle il più possibile, insieme alla tua reputazione e agli onori; e invece della tua ragione, della verità e della tua anima, che dovremmo di continuo migliorare, tu non ti curi e neppure ti dai pensiero."

Lo dice Socrate, nell'Apologia (che ricordo al mio destinatario è uno scritto di Platone, per cui Socrate è di fatto un suo personaggio), e lo dice quando sta per essere condannato a morte, rievocando la vita che ha fatto e ciò in cui crede. Faceva così, ovvero faceva il tafano, punzecchiava e ricordava a tutti quella cosa lì. Ora sollevando Berlusconi dall'appello, lo faccio a te: ci pensi? O dedichi tutto il tuo tempo e le tue energie a quelle cose là? E scusa la brutalità, ma lo sai che, come dicevano i nostri nonni, le tombe non hanno tasche?

Casa nostra

In una vecchia intervista Wim Wenders diceva che noi umani siamo in perenne conflitto, o dialettica o oscillazione, tra at home e on the road. Quando sei in uno di questi due modi, diceva, allora vuoi l'altro. Kant invece parlava del cielo stellato sopra di me. Io mi ricordo, per parte mia, di un viaggio lisergico molto simile a questo. Ero con Dario, lo saluto. E questa, amici, tutti e chiunque tu sia, è casa nostra.

mercoledì 30 marzo 2011

Vita e morte

"Se un uomo non ha scoperto nulla per cui vorrebbe morire, non è adatto a vivere".

Lo diceva M.L. King, e io aggiungo: se vuoi sapere per cosa vale la pena di vivere, chiediti per cosa potresti, e vorresti, morire. E' un modo pratico e semplice per risolvere il solito grande problema del senso della vita. Provare per credere: scrivilo... e vedrai.

martedì 29 marzo 2011

La trappola

"Io mi sento preso in questa trappola della morte, che mi ha staccato dal flusso della vita in cui scorrevo senza forma. e mi ha fissato nel tempo, in questo tempo!"

Luigi Pirandello, La trappola

lunedì 28 marzo 2011

Le grandi sfide per il management del XXI secolo – 6

Con rimando ai precedenti post che si trovano sotto l'etichetta "25 sfide per il management di domani", la sfida per il management di domani numero 6 è:

Reinventare gli strumenti di controllo. Per superare il trade-off tra disciplina e libertà, i sistemi di controllo devono incoraggiare il controllo dall'interno anzichè i vincoli imposti dall'esterno.

Bello eh? Ma abbiamo chiaro cosa significa? Qui il nostro autore (ricordiamo che si tratta di Gary Hamel) a mio avviso scivola, o meglio confonde (a meno che non sia colpa del traduttore, ma ne dubito) un po': quando parla di esterno, intende, in realtà, dire "esterno a me", e quando parla di interno, intende qualcosa di simile a "comunità", ovvero qualcosa in cui mi riconosco. Mi spiego con un esempio: in una certa azienda di cui non ricordo più il nome, il problema relativo a una buona gestione delle spese di trasferta è stato risolto pubblicando nell'intranet aziendale le spese di ciascun manager, in ogni dettaglio.... Questa "pubblicità", termine da considerare in senso stretto, vale a dire come "essere in pubblico", tende a scoraggiare con facilità comportamenti pirateschi e appropriativi quali scolarsi a cena una bottiglia di Chateau Margot del '67 alla modica cifra di 300 euro. O meglio, rende tali comportamenti soggetti alla critica, alla valutazione, all'attenzione da parte della comunità (comunque la si limiti o filtri) - chissà, forse a volte è giusto ordinare a spese della comunità una bottiglia del genere, magari quando si ha per ospite una persona di riguardo che potrebbe generare per la comunità vantaggi ben maggiori della spesa. Insomma, è un po' come quando sai che ti osservano e di conseguenza di viene meno facile buttare la carta per terra. Ora, il punto interessante, secondo me, è che questo modo di procedere comporta una forte coerenza con i valori e la mission e "costringe" le persone a "comportarsi bene" non perchè verrebbero sanzionate o giudicate male, ma perchè gli altri li considererebbero poco "ok", in quanto "traditori" del bene comune. Già... il bene comune. Grande concetto, poco praticato. E se pure tralascio, ora, di esplorare difficoltà e paradossi relativi alla definizione del limite di questo "comune" (ovvero il problema di decidere fin dove si estende... perchè sotto certi aspetti siamo tutti e sempre stakeholders) mi chiedo e vi chiedo: non è forse questo il vero e unico motivo a partire dal quale si possono allineare - come già secoli fa auspicava Blanchard - obiettivi personali e organizzativi? E per converso, chiedo ancora: dove si va a finire se ci si dimentica del bene comune in un'organizzazione in cui le persone, in ultima analisi, sono libere di decidere se lavorare bene o no? E visto che che credo di sapere quale risposta avete dato alle domande di prima, chiedo infine: come mai di queste elementari verità se ne infischiano quasi tutti?

Per maggiori informazioni vedi http://managementlab.com e "Le grandi sfide per il management del XXI secolo", in Oltre la crisi, Piccola Biblioteca del Sole 24 Ore N. 19/2009, Il Sole 24 Ore.

venerdì 11 marzo 2011

Vita, morte e identità

"Per vivere devi far morire te stesso. Ecco perchè tante persone si arrendono."

Paul Auster, Nel paese delle ultime cose

L'aforisma di cui sopra si trova alla pagina 20 dell'edizione tascabile Einaudi, ma tutto il passo - e il libro - è straordinario per percorrere in modo illuminante la dialettica tra identità e cambiamento così come ci si propone oggi. A dimostrazione aggiungo un aforisma tratto da poche righe prima: "La vita come la conosciamo è finita, e tuttavia nessuno è capace di capire da cosa sia stata rimpiazzata".... insomma viviamo in un mondo in cui il rimpiazzo è talmente veloce da mettere in questione l'identità del rimpiazzato. Un po' come la celebre (in filosofia) nave di Teseo, in cui pezzi vengono cambiati man mano, finchè di originale non v'è più niente. Se una cosa del genere accade a te, e ti accade alla svelta, chi sei allora? Non ti sei forse perso a te stesso? E infatti ecco come continua l'aforisma da cui sono partito inizialmente:

"Perchè, per quanto lottino con forza, sanno di essere destinate a perdere. E a quel punto è completamente inutile tentare di lottare".

(Non è una prospettiva teorica, in giro, per strada e per le aziende, di persone che si sentono così ne trovo... forse non tante, perchè di solito si fermano ancora prima, ovvero si arrendono senza lottare gran chè, ma alcune, che arrivano a sfinirsi, a disperare oggettivamente, sì)

Ma chiedo e vi chiedo: è proprio così? La perdita dei principi, dei punti di riferimento, delle abitudini, e quindi dell'identità (così come la conosciamo) è per forza una catastrofe (il mondo descritto da Auster in Nel paese delle ultime cose è catastrofico, orribile, disperato...)? Perdersi a se stessi è per forza una sconfitta? Non sapere più cosa ci aspetta è per forza una disperazione? L'incertezza (forte, strutturale, fondativa) comporta per forza l'assenza di speranza?

domenica 23 gennaio 2011

La nostra meritata Ruby

- Ma com'è questa Ruby, che dice che si è fatta pagare per parlare e per tacere, che ha chiesto 5 milioni di euro e non si sa se li ha presi, che dice e non dice, nega e ammette, tracheggia e bamboleggia? Insomma, a chi risponde? E di cosa?
- Vedi, ogni popolo... ha le mignotte che si merita.

domenica 9 gennaio 2011

Smisurata preghiera

"per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità, di verità

per chi ad Aqaba curò la lebbra con uno scettro posticcio
e seminò il suo passaggio di gelosie devastatrici e di figli
con improbabili nomi di cantanti di tango
in un vasto programma di eternità

ricorda Signore questi servi disobbedienti
alle leggi del branco
non dimenticare il loro volto
che dopo tanto sbandare
è appena giusto che la fortuna li aiuti

come una svista
come un'anomalia
come una distrazione
come un dovere"

... è molto bella anche dall'inizio, ma questa seconda metà mi fa venire i brividi, soprattutto la prima strofa e la chiusura. Mi ci ritrovo molto ed è l'ultima composizione che Fabrizio De Andrè ci ha lasciato: il suo ultimo testamento, il più vero, forse.

(per chi non sa da dove viene - accade - il titolo del post è il titolo della canzone, che è l'ultima di Anime Salve... auguri di salvezza anche a te che mi leggi). Comunque eccola qui, e pure tutta:

sabato 8 gennaio 2011

Sempre nuovo (Vita Nova)

"I significati devono essere costantamente riletti e ricompresi."

Heinrich Zimmer, Il re e il cadavere, pag. 16

Heinrich Zimmer, un grande studioso di cultura indiana molto amato dall’insigne mitografo John Campbell, ci parla nel suo postumo “Il re e il cadavere” della relazione tra il dilettantismo, la generatività propria dei simboli e la necessità del rinnovamento continuo. “La caratteristica del dilettante infatti” scrive Zimmer “ sta nel dilettarsi della natura sempre preliminare della sua comprensione, che non raggiungerà mai il suo culmine. Ma è proprio questo, in definitiva, l’unico atteggiamento corretto di fronte alle figure che ci sono giunte dal passato più lontano”, continua lo studioso alludendo ai capolavori della grande narrativa universale, da Omero alle fiabe della tradizione popolare. “Sono loro”, prosegue, “gli eterni oracoli della vita. Devono essere interrogati e consultati daccapo a ogni epoca, e ogni epoca li avvicina col suo tipo di ignoranza e di comprensione, la sua serie di problematiche, le sue imprescindibili domande. Poiché le trame della vita che noi del nostro tempo dobbiamo tessere non sono quelle di nesuna altra epoca, i fili da intrecciare e i nodi da sciogliere sono molto diversi da quelli del passato. Le risposte già date, perciò, non ci possono servire. Le potenze devono essere riconsultate direttamente – di nuovo, e poi di nuovo ancora. Il nostro compito principale sta nell’apprendere non tanto quanto si dice esse abbiano detto, quanto il modo di avvicinarci a loro, il modo di evocare da loro nuove parole, e poi capirle.Di fronte a un simile compito, dobbiamo restare tutti dilettanti, che ci piaccia o no”.

Quello che voglio proporre è di pensare non solo le “figure che ci sono giunte dal passato più lontano” come tali “oracoli” da consultare e riconsultare sempre, ma di considerare così, quali inesauribili generatori di significati, anche i concetti o le idee (tralascio la disquisizione teoretica sulla differenza tra i due). Mi rendo conto che ciò implica da una parte equiparare, per scendere al particolare, il concetto di “giustizia” all’omonimo arcano maggiore dei tarocchi e, dall’altra, generalizzando, avvicinare molto, o addirittura sovrapporre nozioni tra loro distanti come quella di concetto e quella di simbolo (da intendersi qui nella sua accezione junghiana, romantica, ermeneutica, come tesoro inesauribile di un sovrappiù di senso mai del tutto espresso). E mi rendo conto che questa equivalenza è molto arrischiata. Tuttavia, evitando per ora di addentrarsi in analisi teoriche, l’esperienza del sempre nuovo riscoprire un concetto, di ritrovarlo rivestito di nuovi panni, di riscoprirlo ogni volta uguale e insieme diverso a partire dal tipo di interrogazione che gli poniamo, è un’esperienza comune nelle pratiche filosofiche. Anzi è forse l’esperienza più tipica di queste pratiche. In ciò tra l'altro è racchiuso uno dei sensi del titolo di questo blog: Vita Nova.

Filosofia per tutti

"(...) una proposta concreta: c'è un'istituzione, accademica o no, che è pronta a fare una mossa decisamente "forte" - a fondare (...) un centro studi sulla filosofia italiana nel quale, oltre a portare alla luce l'attualità della nostra tradizione ci si occupi anche, come obiettivo di minima, di renderla e mantenerla presente nel pubblico dominio?"

Ermanno Bencivenga, La filosofia come strumento di liberazione (pag. 204)

Sono d'accordo... qualcuno mi dà una mano? Magari lo dico a Bencivenga stesso: se lo propone vorrà anche farlo...

domenica 2 gennaio 2011

Opinioni e politica

"Avere opinioni adeguate (epieikos doxazein) su ciò che è utile è più importante di avere scienza esatta (akribos epistasthai) su ciò che è inutile." (Hel. § 5) E' un detto accreditato a Isocrate (l'orazione da cui è tratto è Elena), che fu un avversario di Platone, con il grande merito di focalizzare il proprio filosofare su quanto utile da un punto di vista pratico, ovvero, secondo lui, sull'opinione (doxa) - in contrasto con la sedicente episteme (scienza certa) di Platone. Ora, se è vero che per noi oggi di certezze non se ne parla più, e dunque il modello matematico e geometrico di certezza proprio del platonismo non è più modello del sapere, resta che, secondo quanto dice Isocrate, siccome il criterio è l'utile (con modalità non distanti dal pragmatismo di Dewey e compagnia), allora si pone il problema: come stabiliamo cosa è utile e cosa è inutile? Secondo quali criteri? E utile o inutile per chi o per cosa? Il che ci rimanda, d'accordo con Isocrate, a una questione che è fin da subito eminentemente politica...

Amore mio

“Amore mio, non ho parole per scrivere questa lettera… la sto scrivendo nel vuoto dello spazio. Forse al tuo ritorno non mi troverai. Allora questa lettera sarà per te il mio unico ricordo… La vita può davvero essere lunga. Com’è duro e lento per noi questo destino di morire soli. Come può questo destino toccare a due esseri inseparabili? Cuccioli e infanti, quando ce lo siamo meritato? Tu hai meritato questo, angelo mio? Tutto continua come prima. Non so nulla. Sì, invece, so tutto… ogni giorno, ogni ora della tua vita mi appaiono chiari e distinti come in un delirio… Nel mio ultimo sogno ti compravo del cibo in un sordido ristorante d’albergo. Gli uomini intorno a me erano perfetti sconosciuti. Dopo averlo comprato mi rendevo conto che non sapevo dove portarlo, perché non so dove sei… Quando mi sono svegliata ho detto a Sura: “Osia è morto”. Io non lo so se tu vivi ancora, ma dopo quel sogno ho perduto ogni tua traccia. Non so dove ti trovi. Mi puoi sentire? Sai quanto ti amo? Non potrei mai dirti quanto ti amo. Neanche ora riesco. Parlo con te, solo con te. Tu mi sei sempre accanto, e io che sono sempre stata così dura e irascibile, e non ho mai saputo piangere semplici lacrime… ora io piango e piango e piango ancora… Sono io: Nadia. Dove sei tu?”

Da una lettera di Nadeźda Mandel’štam a Osip Mandel’ štam, datata 22 Ottobre 1938 e mai spedita…

Mi viene da piangere, anche a me. L’ho riportata perché penso che ci faccia capire cos’è l’amore. Ma devo anche ringraziare Paul Auster: è lui che ci fa conoscere questo pianto, quest’assenza presente, nell’ultima pagina di un grande libro: L’invenzione della solitudine. Il vero amore comporta solitudine?